La mappa della rete

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La volta scorsa ci eravamo soffermati, nei ristretti limiti delle nostre capacità, sul concetto di mappa e su come la trasformazione digitale ne abbia cambiato le caratteristiche di fondo. Ora proviamo a fare un passo avanti e ragionare su come si usa una mappa. Spero che questo percorso ci porti, per vie non troppo tortuose, a capire qualcosa in più sulle AI.

Un passo avanti, dicevo. A dire il vero, per prima cosa ne dovremo fare parecchi indietro, fino ad arrivare a una civiltà antica, quasi immobile nel tempo, un popolo cosiddetto primitivo, che su un peculiare genere di mappe ha costruito la propria cultura. Sono gli aborigeni australiani, sulle cui tracce si è messo Bruce Chatwin nel suo celebre Le vie dei canti: un libro che parla di mappe nella lingua in cui sono state tracciate. Che non è quella del cartografo, che misura un territorio e lo riporta su una superficie bidimensionale, sia un foglio di carta o uno schermo. La mappa dell’aborigeno è, letteralmente, un canto. un canto segreto, che accompagna il cammino: la mappa, in questo caso, non è il territorio, è il percorso.

L’aborigeno vive in uno spazio estremamente organizzato: gli è noto ogni anfratto di un territorio vastissimo, dalla cui conoscenza dipende la sua stessa vita. Sa dove ci sono acqua, ombra, cibo; dove è pericoloso andare, conosce i luoghi sacri e quelli in cui valgono i vari tabù. Tutto questo non è rappresentato ma vissuto, attraverso la ripetizione del canto che, a sua volta, ha la capacità di collegarsi ad altri canti, intrecciando i percorsi secondo una mappa che traccia le relazioni tra individui, clan e totem. Un spazio organizzato, ma indistinto. Indistinto perché non è, lo abbiamo visto, oggetto di una rappresentazione separata: viene percorso, vissuto, conosciuto, mai semplicemente mostrato o raffigurato.

Indistinto, anche, perché tutte le possibili maniere di esperienza vi confluiscono: il sonno e la veglia, il canto e il cammino, la caccia e il riposo. Indistinto, infine, perché il territorio, il canto che lo descrive e l’uomo che lo attraversa cantando sono una sola cosa, tenuta insieme da un legame che sarebbe riduttivo definire simbolico.

Questa brevissima incursione nel territorio degli aborigeni non ha lo scopo di glorificare il pensiero magico delle culture a noi più lontane. Non si tratta, insomma, della nostalgia per un passato ancestrale, perduto dai millenni in cui lo sviluppo tecnologico si è espresso in un sapere, insieme, alfabetico e cartografico. Al contrario, proprio questa esperienza nomade è, oggi, di straordinaria attualità.

Le nostre vie, i nostri canti

Il modo in cui l’aborigeno si muove indifferentemente tra sogno e realtà somiglia molto a quello con cui noi viviamo in un mondo che è, insieme, fisico e digitale. La mappatura dei luoghi a partire dalle nostre relazioni con essi è il modo in cui, oggi, tracciamo i nostri spostamenti e contrassegniamo i punti significativi. La possibilità dei canti di innestarsi gli uni sugli altri si dà alla stessa maniera in cui oggi incrociamo relazioni, contatti, idee, in thread infiniti che sono il nostro canto.

Ci muoviamo in uno spazio denso, multiforme e difforme. Denso, perché le interazioni che vi avvengono ne definiscono la consistenza: un’estensione vuota ha meno significato e si attraversa più velocemente di una piena di relazioni, di luoghi. Multiforme, perché il senso di questi luoghi è definito in molti modi diversi, a partire da strati eterogenei di relazioni e percorsi. Difforme, perché ogni luogo è segnato in profondità da ciò che vi avviene, è dotato di una storia irripetibile e diversa da tutti gli altri. Le mappe tradizionali, al contrario, partono da una concezione diversa, se non opposta: un’estensione omogenea viene proiettata su una superficie piana, secondo una serie di criteri tanto rigorosi quanto arbitrari. Solo a questo punto si differenziano i diversi luoghi, secondo un criterio ulteriore, estraneo e immutabile, che definisce a sua volta il tipo di mappa: come dicevamo la volta socra, usa cartina militare e una turistica dello stesso territorio sono oggetti diversi, proprio perché usano criteri diversi per definire ciò che è rilevante.

La forma delle reti

Le mappe di cui parliamo adesso, quelle che esistono in funzione dei percorsi e ne vengono continuamente trasformate, seguono un principio diverso: la legge dei network. Come hanno mostrato Albert-László Barabási e Réka Albert, la struttura di un network segue delle leggi proprie. Chiariamo subito una cosa: stiamo parlando di reti a invarianza di scala, nelle quali la distribuzione delle connessioni non avviene in modo casuale (e tendenzialmente uniforme) tra i diversi nodi, perché tende a concentrarsi in pochi nodi molto densi. Questo criterio di difformità (densa, multiforme e difforme) nella distribuzione delle relazioni è stato osservato in moltissimi modelli di rete. Come nota, appunto, Barabási nel suo libro Link, sono a invarianza di scala le reti sociali (connessioni tra persone), metaboliche (tra cellule e parti di cellule), internet (tra router), web (tra siti e pagine), economiche (nella produzione di valore e nella circolazione della ricchezza), l’apprendimento linguistico (tra parole e aree lessicali e funzionali) e molte altre.

Ci muoviamo in un mondo fatto di relazioni, nelle quali i nodi più importanti esercitano un’attrazione (quasi) irresistibile, se non altro perché il nostro bisogno di connessioni ci impedisce di restare “tagliati fuori”. A tutto questo non si sottraggono le AI: anche le reti neurali hanno una configurazione a invarianza di scala e la ricorsività degli algoritmi amplifica ulteriormente questa dinamica.

Polarizzazioni inevitabili?

Del resto, questo modello è estremamente efficiente: se il nodo B è connesso con tutti gli altri in una rete con tanti nodi quanti le lettere dell’alfabeto, allora per andare da A a Z non mi serviranno 25 passaggi (attraverso tutte le lettere), ma solo due: da A a B e da B a Z. Il problema, però, è che è anche estremamente iniquo: secondo questa logica, i “ricchi” diventano sempre più ricchi e i “poveri” sempre più poveri. Lo vediamo bene anche nello sviluppo delle nostre società, che si stanno polarizzando sempre più, man mano che assumono un’organizzazione a rete.

Per questo, forse, dovremmo rimetterci in cammino ed esplorare il nostro territorio, con percorsi irriducibili alla logica nodo-connessione. E forse, anche su questo le AI potranno essere nostre alleate, se riusciremo a sfruttare, insieme a loro, le nuova densità di informazioni che sapremo vivere e scoprire.